mercoledì 29 marzo 2017

L'esibizionismo del dolore

La riflessione di oggi verte del dolore, sui problemi quotidiani.

Vi è mai capitato di parlare con i vostri amici dei vostri problemi?.
A chi non è capitato di sfogarsi con qualcuno.

Un evento spiacevole.
Un collega fastidioso.
Le condizioni di lavoro troppo stressanti.

Il messaggio che sento spesso dire è “Parlane con qualcuno, ti sentirai meglio”.
Gli argomenti spiacevoli e i problemi sono sempre un ottimo argomento di conversazione.
Creano un coinvolgimento più profondo.

Da un lato funge da valvola di sfogo, dall’altro è un argomento immediato ed efficace.

Detto questo.

Se parlare dei propri problemi può fungere da valvola di sfogo, in certe situazioni può farci apparire come persone superficiali e negative.
Anche quando non lo siamo.

Me ne accorgo quando parlo con le persone, mi capita spesso di trovare coloro che parlano sempre e solo dei loro problemi.
Mi sono accorto che monopolizzare la conversazione sui propri problemi porta gli altri ad allontanarsi, crea disagio.
Io stesso fatico a frequentare persone che parlano solo dei loro problemi.
Se li vedo per strada tendo a non fermarmi a parlare con loro, avviene inconsciamente.

No, non è più una valvola di sfogo, perché si prende qualsiasi problema.
E’ un mero esibizionismo del dolore.. con la differenza che succede nella vita reale, e non su Facebook.

Ma non è solo questo.
Quante volte, le confidenze sui propri problemi sono state usate contro la persona stessa?.
Quante volte in mancanza di altre valvole di sfogo, si crea letteralmente una dipendenza da questo approccio?.

Questa combinazione mi ha fatto riflettere.
Il consiglio “Parlane con qualcuno” deve essere più specifico, affinché i benefici non si ritorcano contro.

Sono giunto alla conclusione che solo tre gruppi di persone sono adatti ad accogliere i nostri problemi.

Coloro che possono aiutarci veramente a risolvere il nostro problema.
Coloro che possono essere aiutati nel loro problema, sentendo il nostro.
Coloro che fanno parte della nostra famiglia e che, seppur non in grado di risolvere il nostro problema, possono darci un senso di vicinanza, di sostegno.

Purtroppo abbiamo la tendenza al dare valore ai problemi, a prescindere dalla entità degli stessi.
Parlare dei propri problemi con qualcuno, come se parlarne in qualche modo li risolvesse.

Per risolvere i propri problemi bisogna in primo luogo comprenderli.

Per comprenderli bisogna conoscere sé stessi. 

venerdì 17 marzo 2017

Il Paradosso Invisibile

Con la riflessione di oggi vorrei invitarvi a fermarvi un momento.

Guardatevi attorno.

Tutto ciò che avete.
I vostri svaghi.
I vostri vestiti.
Le applicazioni installate sul vostro cellulare.
Il numero di libri che avete a casa.
Il numero di giochi che vostro figlio ha a disposizione.

Vorrei confrontarmi con voi.

Mi capita di sentirmi smarrito quando ho troppe scelte a mia disposizione.
Mi sono abituato a vivere nel "troppo".

Troppe attività.
Troppo svago.
Troppa variabilità.

E' così che gira il mondo oggi.
Gestioni sempre più polarizzate.
Hai di tutto o vivi con poco.

Con il passare del tempo ho realizzato che avere troppa scelta esercita un effetto insolito.
Andare in libreria e trovarsi davanti a mille generi tutti in una volta.
Aprire il porta-scarpe e vedere 4 paia di scarpe estive.
Ambienti con molta variabilità in genere.

All'inizio pensavo che fosse una deviazione professionale.
Invece no.. ho cambiato idea.

Non è uno stress attivo, ad esempio dopo una giornata intensa di lavoro.
Uno stress silente, passivo, cumulativo.
Come se la variabilità dell'ambiente che ci circonda esercitasse una influenza sul come ci sentiamo.
Non è semplice percepirlo ed è tutto fuorché immediato rendersene conto.

E' come se avere meno cose da gestire ci facesse sentire più focalizzati.
Indirettamente più sereni.

Non parlo di ordine, parlo di variabilità.

Parto dal presupposto che l'unico spazio che posso gestire è la mia vita e le cose che possiedo.
Da 35+ magliette ora ne ho 10.
Tagliato nettamente sull'abbigliamento intimo.
Tenere un paio di scarpe casual in un armadietto 365 giorni all'anno... NO.

Da decine di applicazioni e giochi, installate sul telefono, ho scelto solo quelle che uso di frequente.
Per le applicazioni meno usate uso il PC fisso o il PC portatile.

Indirettamente riscopro di passare meno tempo giocando al telefono.
Indirettamente mi trovo a parlare di più con mia moglie e ad essere più partecipe nella vita di casa.
E' un paradosso.
Come se avere troppe scelte possa trasformare la "libertà di scelta" in un peso invisibile.

Ma non finisce qui.
Vorrei sottoporvi un possibile risvolto: Il modo in cui educhiamo i nostri figli.

Spesso applichiamo dei limiti ai nostri figli nella convinzione di rassicurarli.
Forse lo facciamo per dare loro un mondo più piccolo in cui muoversi più agevolmente.
Forse lo facciamo per farli sentire meglio.

La domanda di oggi è..  se la stessa regola valesse anche per gli adulti?.



mercoledì 18 gennaio 2017

Problemi e Patate Fritte

A Luglio del 2015 avevo scritto un post riguardo alla mia visione dei problemi.

In quel post avevo parlato del ruolo delle persone coinvolte in un problema.
Ero giunto alla conclusione che se non sei parte della soluzione sei parte del problema.

Ho riflettuto su quanto ho scritto, ed esprimo il desiderio di cambiare ulteriormente prospettiva.
Per farlo vorrei addentrarmi nella natura stessa della parola "problema".

Cercando il significato della parola "problema", su google trovo la seguente descrizione:

"Difficoltà che richiede un adattamento o un comportamento particolare, o di cui si impone il superamento: ha problemi ad esprimersi, a camminare, a correre; ognuno ha i suoi p.; è un p. serio; com. : non ci sono p., per rassicurare altri a proposito di situazione che non presenta difficoltà particolari e per cui non c'è da preoccuparsi."

La descrizione sopra mi soddisfa ma non completamente.
E' necessario prendere atto di un altro aspetto.
Ho la percezione che la parola "problema" sia ormai diventata una parola abusata.

Il risultato è che spesso si finisce per parlare di "problema" quando non è necessario.
In altre parole, capita spesso di trasformare gli ostacoli in problemi.

Vorrei provare ad affiancare una seconda descrizione a quella scritta sopra:

"Interpretazione di una determinata situazione, che genera nell'essere umano un senso di difficoltà o la percezione di un attacco personale."

Non parlo dei problemi veri e propri come la disabilità, le malattie o la fame nel mondo, non voglio generalizzare.

Vedo la parola "problema" come un approccio inefficiente, privo di senso costruttivo.
Una interpretazione che ci impedisce di vivere serenamente le sfide che continuamente decorano, come un contorno di patate fritte, le nostre vite.

Vorrei provare a cambiare il modo in cui interpreto gli ostacoli più banali che incontro.

Mio figlio piange? è un bisogno, non un problema.
La mia partner si è dimenticata di pulire il bagno? non è un problema, ci si accorda e si rimedia.
Un tuo collega ha sbagliato mentre lavorava? Bisogna rivedere il piano di formazione, no problem!.
Ti cade il caffè sulla camicia? non è un problema, vediamo cosa si può fare perché si veda meno.

Cogliete la differenza?.
Non si perde tempo a valorizzare il lato negativo della situazione, ci si concentra sulla soluzione della difficoltà.
Oggettivamente, che valore aggiunto ha riprendere o sgridare qualcuno?.

Non fraintendetemi.
Non sono un patito del buonismo, e nemmeno dei para-occhi.
Non parlo per estremi.

Come ho detto prima, ci sono i problemi e ci sono quelle situazioni che trasformiamo in problemi.

Vorrei che prendeste coscienza di quanto è facile fermarsi davanti ad un ostacolo dicendo "ho un problema".

La parola "problema" è di per sé un termine non costruttivo e non propositivo.

Prendendo atto di questo, usare questa parola con cognizione di causa può trasformare la percezione del problema in qualcosa di diverso.

Non è quello che guardi ma quello che vedi.
















  

martedì 8 novembre 2016

Generazioni ritrovate

Lo ammetto.
Ho sempre avuto paura ad affrontare certi argomenti.
Uno di questi era la possibilità che io diventassi papà.

Mi sono nate delle domande.
Perché devo avere timore?.
Da dove nasce questa insicurezza?
E se facessi delle scelte sbagliate?.

Nel tempo, queste perplessità sono sfociate in un percorso.
Un percorso di conoscenza e di scoperta.

Se ci sono dei timori, bisogna cercarne la ragione.
Se si conosce la ragione.. bisogna comprenderla in profondità.

Ho dovuto iniziare da capo, un'altra volta.
Succede sempre così quando decidi di cambiare ottica su qualcosa.
Vedere le cose da un' angolazione diversa.

Spesso le cose fanno paura quando le guardi.
Spesso le stesse cose non fanno più paura se le vedi con occhi diversi.

Ho comprato libri, letto articoli.
Ho cercato di confrontarmi con la realtà, e col mio passato.

L'inizio della mia generazione.

Non sembra ma anche su queste tematiche, gli scontri di pensiero non sono pochi.
Ci sono punti di vista molto diversi sulla educazione infantile.
Vale la pena informarsi, concedersi il beneficio del dubbio.
Provare ad avere una vita più serena.

Mi sono stupito di quanto certe reazioni ci vengano automatiche.
Spesso improntiamo l'educazione su quello che si aspettano gli altri.
A volte questo supera persino il concetto di giusto o sbagliato.

Sono tematiche molto interessanti, che non mi sono mai dato la possibilità di approfondire.
Concludo con un verso del poeta Kahlil Gibran, che molto mi ha fatto riflettere, a suo tempo.

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I tuoi figli non sono figli tuoi,
sono i figli e le figlie della vita stessa.
Tu li metti al mondo, ma non li crei.
Sono vicini a te, ma non sono cosa tua.
Puoi dar loro tutto il tuo amore, ma non le tue idee,
perché essi hanno le loro proprie idee.
Tu puoi dare loro dimora al loro corpo, non alla loro anima,
perché la loro anima abita nella casa dell'avvenire,
dove a te non è dato entrare, neppure col sogno.
Puoi cercare di somigliare a loro, ma non volere
che essi somiglino a te,
perché la vita non ritorna indietro e non si ferma a ieri.
Tu sei l'arco che lancia i figli verso il domani.


Kahlil Gibran

giovedì 16 giugno 2016

Fasci D'erba

Ieri sera ho visto in televisione l'ennesima pubblicità sull'aiuto ai paesi poveri.

La nostra società è basata interamente sugli stereotipi.
E' così fortemente radicata in questi schemi mentali che spesso è molto difficile realizzarlo.

Un filtro davanti agli occhi.
Automatismi che ci portano a prendere o non prendere determinate scelte.
L'essenza stessa del marketing, il dover sfruttare questi stereotipi per vendere il proprio prodotto.

L'automatismo umano che ci porta a categorizzare qualsiasi cosa.
Non riusciamo a farne a meno, abbiamo il bisogno di semplificare continuamente.

Nel bene e nel male.
Nella vita di tutti i giorni è positivo categorizzare dei concetti estesi, oppure quando si impara.
Ma non oggi.
Oggi mi soffermerò sul lato negativo di questi automatismi.

Il bambino povero dalla carnagione chiara non fa audience, non fa pietà.
Ci vuole il bimbo malnutrito di colore per attirare l'attenzione, ci vuole una immagine estrema.
Il bimbo nero ricorda gli schiavi neri, ricorda l'Africa che ha fame.

Un uomo che cade in povertà e cerca di vestirsi dignitosamente non è "povero".
Gli zingari che si coprono di stracci e mendicano hanno realmente bisogno.
La figura del professionista con il camice bianco nelle pubblicità dei dentifrici è una garanzia!.

Ancora, una prostituta è una persona di malaffare, non passarci nemmeno vicino!!.
Ti farà del male! Ruberà i tuoi soldi!.

Potrei andare avanti per ore.

Le radici di questi schemi mentali sono molto profonde.
Il bello è che si cerca sempre di dare l'impressione di non essere parte di questo automatismo.

Prendiamo il razzismo, un'applicazione più "sottile" di questo concetto.

Siamo bravi a pulirci la coscienza pulendo quello che diciamo, con termini come "ragazzo di colore".
La società predica una facciata, ma traspaiono modelli di stampo razzista.

E' anche vero che in certe situazioni siamo noi a dare il significato alle parole che diciamo.

Ho parlato con molte persone che usavano la parola "negro" in termini di gruppo, usandola come un soprannome.
In queste situazioni non c'era offesa, negli USA è un fenomeno normale.

E' giusto fermarsi.. e riflettere.

E' più importante dire una parola al posto di un'altra per dimostrare qualcosa?.
E' più importante non applicare distinzioni nel nostro vivere quotidiano?.

Mi piacerebbe provare ad andare oltre la facciata di quello che percepiamo passivamente.

Siamo schiavi dei fasci d'erba.



mercoledì 25 maggio 2016

Il vaglio della scelta


Durante lo scorso weekend ho riflettuto sul significato della parola "scelta".
La vita è fatta di scelte.

Ogni scelta viene dettata da numerosi fattori, in primis dall'aspetto sociale, poi da quello economico. Certamente, non posso generalizzare, ma è indubbio che l'aspetto sociale opera come un filtro.
Un filtro che blocca in partenza qualsiasi scelta che non segue "la comunità".

Siamo cresciuti in un ecosistema dove ci viene sempre imposta un'idea quasi metafisica.
Questa idea prende il nome di "fai la scelta giusta".

Si è portati a pensare che "la scelta giusta" sia la scelta più normale, più legata al buon senso.
Si è portati a pensare che "la scelta giusta" esuli dal normale corso delle conseguenze.

Riflettendo, trovo che questo atteggiamento cela una grande e scomoda (o comoda?) verità.

Non tanto il fatto che ogni scelta ha le sue conseguenze, questo lo sappiamo bene ormai.
Il fatto che ogni scelta ha sempre delle conseguenze ambivalenti.
Conseguenze sia positive che negative, rapportate alla scelta fatta.

Quando piove c'è sempre del fango, se vogliamo trovare una trasposizione improvvisata.

Il "lo fanno gli altri" è ormai diventato una linea guida del "buon senso".
Lo è diventato a tal punto.. che esporre una scelta che rema contro il pensiero comune, è difficile.
La persona che ti ascolta spesso si sente a disagio, cambia discorso, ti giudica.

E così in seguito ci ripensi. Ti domandi se di fronte ad un muro.. avrai fatto davvero la scelta più appropriata? "La scelta giusta"?.
E a volte, di conseguenza, le scelte cambiano.
E così si mette le scelte sulla bilancia. Una scelta scomoda ma meditata.. o una scelta conformista?. A volte le due si sovrappongono, ma sono casi come molti altri.

Tutto ciò che ci circonda è frutto di una scelta, a volte è volontaria, a volte non lo è.
Ma la scelta c'è ugualmente.

C'è sempre una scelta dietro l'ignorare una persona.
C'è sempre una scelta dietro il non farsi gli affari propri.

Cavolo, la vita è davvero tutta una scelta!.

martedì 16 febbraio 2016

Unioni civili, libertà e figli

Sono giorni tumultuosi,
la gente parla.

Parla di cosa?.
Di cose che dicono gli altri.

Mi posso fidare di quello che dicono gli altri?.
Chi si fida? su cosa si basa?.

"Matrimonio civile" è il termine che desta gli animi.

Dicono "Il matrimonio è tale solo se sono coinvolti un uomo e una donna".
OK.
Concordo che l'etimologia del termine è la seguente:
"Rapporto di convivenza dell'uomo e della donna in accordo con la prassi civile, ed eventualmente religiosa, volto a garantire la sussistenza morale, sociale e giuridica della famiglia.".
Questo va a a congiungersi con la sacralità della figura della madre, da li la parola "Matri-monio".
  
Il pezzo che mi manca è: Perchè non è possibile scindere la visione civile da quella religiosa.
Per quale motivo è così difficile associare all'aggettivo "civile" un cambiamento totale del termine matrimonio?.

E' una parola, soltanto una parola.

Se la chiesa non accetta di ritenere "sposate" le coppie omosessuali in termini religiosi, è liberissima di farlo, suo il territorio e sua la legge.
Se lo stato congiunge due persone che si amano, e le regolamenta davanti alla legge, che problema c'è?.
Se il matrimonio fosse solamente una prerogativa della chiesa, una persona laica e non credente non potrebbe sposarsi.
Sotto questa ottica, ho davvero la percezione che il nostro paese è davvero molto lontano dalla tanto osannata "mentalità aperta".

Non comprendo il motivo dietro al dover forzare un collegamento fra le due parti solo per protesta, il motivo dietro a questo astio, per dei motivi così futili.

E poi vengono i figli.
Si complica.

Ci sono dei punti di vista così contrapposti, sia dal punto di vista pedagogico che morale.
La domanda è sempre la stessa "cosa comporta per un bambino, il fatto di crescere fra due figure di ugual sesso?".

Non è una domanda a cui rispondere a cuor leggero.
Non è una domanda a cui ti basta dire "io la penso così".
E' una domanda il cui tema non sei tu, ma altri individui non ancora maturi.

Di fronte ad una tematica del genere, prendere una posizione superficiale è quantomeno presuntuoso.
Questo perchè la crescita di un individuo è una cosa complessa, che va tenuta in seria considerazione.

Esistono studi al riguardo, che possono venirci in aiuto.
Fra i tanti siti, ne ho trovato uno che riassume in modo piacevole tutte le facciate coinvolte.

Link

Io sono cresciuto sotto la religione cattolica cristiana, col passare del tempo me ne sono poi allontanato, per motivi miei personali.
Non vedo più la figura di Cristo per come la vedevo un tempo.
Mettiamo che un giorno di questi provassi a immaginarlo.
Conoscendo i suoi insegnamenti e il suo pensiero, cosa direbbe di fronte a tutte queste regole, e a tutti questi schemi mentali?.
Secondo me rimarrebbe molto deluso, per non dire scandalizzato.

Non era proprio lui che diede un solo comandamento?.